Chi scrive ha una storia lavorativa che nasce nel 1996. Prima semplice collaboratore, poi impiegato, infine capoufficio in una piccola azienda.
Ma la mia esperienza lavorativa ormai è alle spalle, il mobbing che ho subìto ha avuto la conseguenza di farmi perdere il posto di lavoro, ed anche la salute.
Questo blog rappresenta soprattutto un diario, molto parziale, di ciò che mi è capitato.
In esso potrete trovare anche notizie interessanti, informazioni utili, consigli, ma nè questo blog nè altri possono sostituire il supporto di un avvocato specializzato in diritto del lavoro, oppure di uno psicologo. Il mio invito a quanti subiscono una situazione di disagio sul posto di lavoro è comunque quello innanzitutto di confrontarsi con altre persone che soffrono o hanno sofferto lo stesso problema: oggi lo si può fare molto facilmente anche attraverso Facebook, dove esistono - e sono purtroppo molto frequentati - gruppi che affrontano questa tematica.
Invito tutti i lettori a lasciare un commento, anche in forma anonima: più se ne parla, meglio è!

lunedì 31 gennaio 2011

Resistere!

Per mettere fine a questa situazione basterebbe molto poco: dimettersi. Magari si riuscirebbe a farlo, vista la situazione, per giusta causa, ottenendo così l'indennità di mancato preavviso. Magari un buon avvocato riuscirebbe a farmi ottenere un piccolo risarcimento, magari a farmi riconoscere le ore di straordinario fin qui non pagate. Ma avrei però comunque perso, perché avrei perso il mio lavoro, senza aver fatto nulla per meritare questa fine... per non parlare della difficoltà, alla mia età, di trovare un nuovo posto... No, purtroppo con famiglia e mutuo da pagare non è possible dimettersi. L'unica cosa da fare è resistere. Guardarsi attorno, sperare di trovare l'alternativa, ma resistere, protrarre quanto più possibile questa agonia.
All'inizio era difficilissimo. Non si può far finta di nulla quando sei vittima di una colossale ingiustizia, non puoi fare a meno di pensare e chiederti perché, abbandonandoti al risentimento, ai peggiori sentimenti... Si affoga nel proprio odio, che non ti fa vedere la realtà, che ti condiziona anche quando sei fuori da quelle quattro mura. Quello che stai vivendo diviene l'unico pensiero, pian piano ti convinci che non finirà mai. Tutto finisce col perdere di significato, ti sorprendi quando qualcuno ti saluta cordialmente perché non sei più abituato al calore umano, finisci col credere che effetivamente non sei più capace di fare il lavoro che facevi prima. Col tempo ci si rassegna a questo. Ma non posso dire che ci si abitui, perché non ci si può abituare ad una ingiustizia; in piccolo, è un po' come stare in un carcere, dove all'inizio ci si sente spaesati e fuori luogo, ma poi col tempo si comincia a capire come muoversi per soffrire di meno. Ecco, per resistere io ho capito che quelle pochissime cose che potevo fare dovevo farle, dovevo e devo trovare degli stimoli per andare avanti. La prima cosa che ho fatto è cominciare a pensare di meno. Già: pensare può fare solo male, se i pensieri sono sempre gli stessi. Ho cominciato a tenermi più impegnato nei momenti liberi: vedere film, uscire, leggere libri. Se la mente comincia a focalizzarsi anche su altre cose, ci si convince che il lavoro è una parentesi nella propria vita, non la parte dominante. Il mio sforzo quotidiano è mettere davanti ai miei occhi la verità vera, non quella artefatta in cui non valgo nulla e non sono più in grado di fare niente: no, la verità è che io sono quello di sempre, sono solo quei tre che vogliono farmi sentire ciò che non sono. Nei loro confronti non devo provare odio e risentimento: no, soltanto commiserazione. Chi ha bisogno di comportarsi in quel modo per affermare la propria personalità - se così si può definire - è perché di fatto non ha altri modi, sono loro a non valere nulla, non io. Comincio a valorizzare alcuni comportamenti di alcuni collaboratori esterni che hanno capito tutto, e, con discrezione, mi lasciano intendere che non condividono quanto mi viene riservato. Non è molto e soprattutto non può cambiare le cose, ma mi aiutano psicologicamente, capisco così che non sono completamente solo, constato che la considerazione che tutti mi hanno sempre manifestato ancora esiste in qualcuno. Ho poi la fortuna di avere una famiglia, una moglie che mi ama e mi stima... certo mi chiedo come potrei fare senza di lei, come fa a resistere chi in queste situazioni è davvero solo. Mi aiuta molto anche scrivere in questo blog, un po' serve per sfogarmi, un po' per sperare di essere utile a qualcuno che vive la mia stessa condizione. Quella di oggi è stata finora una giornata molto dura, ma se anche una persona al mondo potrà trovare in quanto scrivo uno spunto per guardare al futuro con meno dolore nel cuore, vorrà dire che la mia giornata almeno sarà servita a qualcosa, e questa speranza mi dà forza e mi aiuta ad andare avanti.

sabato 29 gennaio 2011

Dimissioni per giusta causa

In applicazione del principio posto dall'art. 2118 cod. civ., ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato; l'atto di recesso del lavoratore è detto "dimissioni".

Con la pubblicazione in G.U. della Legge n. 133 del 06/08/2008, è stata abrogata la disciplina che stabiliva che la lettera di dimissioni doveva essere resa su appositi moduli informatici predisposti dal Ministero del Lavoro (D.I. 21 gennaio 2008). Pertanto, le dimissioni possono essere presentate in forma libera, salvo diversa previsione contrattuale.

A chi si rivolge
A tutti i lavoratori dipendenti e parasubordinati.

Contenuti e procedureLe dimissioni devono essere rassegnate previo preavviso, salvo il ricorrere di una giusta causa di recesso (art. 2119 cod. civ.).
    
Il termine di preavviso richiesto in caso di dimissioni è stabilito dalla contrattazione collettiva.
    
Il lavoratore ha il diritto di recedere senza preavviso dal rapporto di lavoro in caso di giusta causa, cioè a fronte di un fatto tale da non consentire la prosecuzione del rapporto. In tal caso il lavoratore avrà diritto all'indennità sostitutiva del preavviso.

La giurisprudenza ha precisato in particolare che costituisce giusta causa di dimissioni del dipendente:
  • la mancata corresponsione della retribuzione in quanto grave inadempimento;
  • la mancata regolarizzazione della posizione contributiva del lavoratore; 
  • l'omesso versamento dei contributi previdenziali; 
  • le molestie sessuali; 
  • il mobbing, vale a dire il crollo dell'equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte di superiori gerarchici o di colleghi; 
  • il comportamento offensivo o ingiurioso del datore di lavoro o del superiore gerarchico;
  • le variazioni notevoli delle condizioni di lavoro a seguito di cessione dell'azienda; 
  • lo spostamento del lavoratore da una sede all'altra senza che sussistono le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive previste dall'art. 2103 cod. civ;
  • il fatto che le mansioni affidategli siano state svuotate di contenuto;
  • il tentativo dell'impresa di coinvolgere il dipendente in attività illecite;
  • la mancata predisposizione delle cautele necessarie a garantire la salute e la sarenità professionale del lavoratore violando così il precetto di cui all'art. 2087 del codice civile;
  • l'adibizione del lavoratore al lavoro notturno, quale modalità normale e stabile di svolgimento del rapporto di lavoro e la mancata attuazione delle procedure previste dalla legge.
E' stata esclusa la giusta causa di dimissioni del lavoratore, al quale pertanto non spetta l'indennità sostitutiva del preavviso:
  • per sospensione del lavoro per CIG;
  • per mutamento dell'assetto azionario della società alla quale appartiene l'impresa;
  • per doglianze che riguardino una situazione già conosciuta dal lavoratore all'atto dell'assunzione e accettata tacitamente con l'incarico.
La giurisprudenza ha affermato che il recesso del lavoratore soggiace alla disciplina generale sulla nullità (artt. 1418 e ss. cod. civ.) e annullabilità (artt. 1425 e ss. cod. civ.) dei negozi giuridici.

Sono nulle:
  • le c.d. "dimissioni in bianco", cioè l'atto di dimissioni sottoscritto dal lavoratore e consegnato al datore di lavoro, al momento dell'assunzione, che ne può far uso quando ritenga più opportuno; 
  • è valido l'atto di dimissioni soltanto predisposto dal datore di lavoro, ma firmato o presentato dal lavoratore se e quando questi lo decida.Le dimissioni sono invece annullabili se rassegnate da persona incapace di intendere e di volere o per vizi della volontà del lavoratore (errore, dolo, violenza).
In particolare la giurisprudenza ha riconosciuto che sono annullabili:

- le dimissioni rassegnate dal lavoratore a fronte di minaccia del datore di lavoro di licenziamento in caso di rifiuto, semprechè tale minaccia venga provata in giudizio e consista nella prospettazione di un licenziamento illegittimo;
- le dimissioni rassegnate dal lavoratore che al momento del compimento dell'atto era, anche solo parzialmente o temporaneamente, incapace di intendere o di volere;
- le dimissioni del lavoratore ove la sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro sia stata riconosciuta forzata o comunque viziata (es. perchè estorte sotto la minaccia di essere diffamato).
L'azione di annullamento può essere esercitata solo da colui a favore del quale è prevista l'annullabilità e si prescrive in cinque anni (art. 1442 cod. civ.). Se la volontà si assume viziata da incapacità di intendere o di volere, anche transitoria ma esistente al momento in cui gli atti sono stati compiuti il termine prescrizionale comincia a decorrere dal giorno in cui l'atto è stato compiuto (art. 428 cod. civ.).
Diversamente, qualora l'annullabilità dipenda da un vizio del consenso (determinato da errore: artt. 1427, 1428, 1429, 1430, 1431, 1433; violenza: artt. 1427, 1434, 1435, 1436, 1438; dolo: artt. 1427, 1439, 1440 cod. civ.) o da incapacità legale (artt. 414 e ss. cod. civ.) il termine decorre dal giorno in cui è cessata la violenza, è stato scoperto l'errore o il dolo, è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione, ovvero il minore ha raggiunto la maggiore età.

La Corte Costituzionale ha precisato che le dimissioni per giusta causa sebbene provengano dal lavoratore sono riconducibili al comportamento di un altro soggetto, pertanto comportano uno stato di disoccupazione involontaria e non escludono la corresponsione della indennità ordinaria di disoccupazione.

domenica 23 gennaio 2011

Quali sono i danni risarcibili

Le conseguenze del mobbing sul lavoratore che ne sia soggetto passivo possono concretizzarsi in gravi danni alla salute. Si tratta di disturbi e patologie psicotiche di vario tipo, si parla al riguardo di “sindrome post-traumatica da stress”: i danni vanno dalle lesioni più gravi al sistema nervoso centrale, con conseguenze gravi e permanenti di grado tale da apportare profondi ed irreparabili perturbamenti alle funzioni più necessarie alla vita organica e sociale o da determinare incapacità a lavoro proficuo (fobie persistenti) a psico-nevrosi di media entità, fino a sindromi nevrosiche lievi, ma persistenti.
Tali danni sono risarcibili sotto il profilo della menomazione all’integrità psico-fisica del lavoratore e più in particolare del danno alla salute, alla professionalità e del danno esistenziale. Si tratta di voci di danno integranti una “lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro” che hanno una duplice configurazione : patrimoniale e non patrimoniale.
Quanto al danno patrimoniale, si tratta delle conseguenze del comportamento mobbizzante che incidono sul patrimonio del soggetto leso sia in termini di danno emergente (rimborso di tutte le spese e dei costi da sopportare per eventuali cure o assistenza) che di lucro cessante( danno da perdita di occasioni di guadagno o di altre occasioni utili). Aspetti di danni di natura patrimoniale si rinvengono allorquando venga lesa la professionalità specifica del lavoratore (ad esempio quando, attraverso la lesione della possibilità applicative delle proprie capacità e attitudini, il lavoratore viene sostanzialmente dequalificato).
Il demansionamento, in particolare, traducendosi in una modifica peggiorativa della collocazione professionale del lavoratore ne determina un impoverimento della professionalità. Ne consegue un danno di tipo economico, oltre che un danno professionale e di immagine.
In particolare, per quel che concerne il danno professionale, la giurisprudenza è solita quantificarlo computando una percentuale della retribuzione mensile, determinata tenendo conto della gravità della dequalificazione, della durata, dell’importanza della stessa, dell’età del lavoratore e prendendo a base la retribuzione percepita durante il demansionamento.
Quanto al danno non patrimoniale, a questa voce è riconducibile il danno all’integrità psico-fisica che sia tale da pregiudicare l’equilibrio personale professionale del lavoratore. Si deve quindi trattare di situazioni di elevato stress, che sono causa di malattia o di aggravamento di stati patologici già in atto. ( vedi in proposito Tribunale di Agrigento, sentenza dle 1/02/2005 )
Il danno morale, in sostanza, riguarda tutte quelle sofferenze psichiche derivanti dall’illecito. La giurisprudenza ha ormai chiarito che tale voce di danno è risarcibile, non solo quando non solo la fattispecie integri gli estremi di un reato, ma ogni qual volta vengono lesi i diritti inviolabili della persona. Alla stregua di questa ricostruzione è risarcibile sia il “danno morale soggettivo,” inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse costituzionalmente garantito all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico; sia infine il danno “esistenziale” derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona “.(Cass 22.2.2002 n. 4129, Cass 12 maggio 2003, n.7281 e 7282)
In sede di giudizio può essere demandato al consulente tecnico d’ufficio l’accertamento dell’esistenza sulla persona del lavoratore dei sintomi identificatori del mobbing.

sabato 22 gennaio 2011

Stress da lavoro correlato? La legge obbliga le aziende a porre rimedio

Dal 31 dicembre 2010 scattano le nuove norme per eliminare le condizioni di stress dei dipendenti. Aziende grandi o piccole, pubbliche o private, la recente circolare del Ministero del Lavoro contiene le procedure da adottare


Tutti ne abbiamo sofferto, molti ne soffrono ancora. Quando i carichi di lavoro sono eccessivi, quando i ritmi diventano pressoché insostenibili, quando orari e turni inghiottono la vita privata e i conflitti fra colleghi si trasformano in "attacchi di bile", ecco, in queste e molte altre evenienze si rientra in una situazione di stress da lavoro. Oggi, con l'attuazione del Testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, diventa un obbligo per le aziende, grandi o piccole, private o pubbliche che siano, mettere in atto misure per eliminare o ridurre al minimo lo stress da lavoro. 

Un importante passo in avanti poiché fornisce ai datori di lavoro pubblici e privati e ai lavoratori stessi uno strumento fondamentale per attuare correttamente la legge in materia di valutazione del rischio con riferimento allo stress correlato al lavoro. Le procedure delineate nella circolare del ministero del Lavoro dovranno essere applicate dalle aziende a partire dal prossimo 31 dicembre 2010.

Un atto dovuto, perché sia le normative europee sia quelle nazionali affermano che "la valutazione dei rischi da lavoro deve comprendere tutti i rischi per la salute e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori". Si stabilisce, quindi, che tra questi rischi oltre ai fattori tradizionali (uso di sostanze nocive o di macchinari pericolosi) rientrano ormai anche i rischi di tipo immateriale, come quelli che riguardano lo "stress lavoro-correlato".
L'individuazione di questa nuova categoria di rischi viene demandata dal ministero a una commissione composta da esperti del governo, delle Regioni e delle parti sociali volta a definisce un percorso per identificare il livello minimo di attuazione dell'obbligo al quale dovranno attenersi tutti i datori di lavoro. Secondo l'Accordo europeo dell'8 ottobre 2004, lo "stress lavoro-correlato"  è definibile come la "condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o aspettative riposte in loro". Il ministero del Lavoro ha poi precisato ulteriormente questa ampia definizione circoscrivendo le cause a "fattori propri del contesto e del contenuto del lavoro".

Nello specifico la valutazione verrà fatta non sui singoli lavoratori, ma su "gruppi di lavoratori esposti in maniera omogenea allo stress". Il datore di lavoro stesso è tenuto ad effettuare questa valutazione servendosi di chi in azienda si occupa di prevenzione e protezione, oltre a coinvolgere un medico competente, e avendo precedentemente consultato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
La procedura si svolgerà in due fasi. La prima è obbligatoria e serve a rilevare "indicatori oggettivi e verificabili" di vario genere (indice di infortuni, "specifiche e frequenti lamentele formalizzate da parte dei lavoratori", turni, "conflitti interpersonali al lavoro" e così via). Qualora non vengano riscontrati elementi di rischio, il datore di lavoro si limiterà a scriverlo nel Documento di valutazione del rischio, includendo, però, un piano di monitoraggio.
Qualora, invece, emergano fattori di stress, la fase due prevede che vengano adottati in azienda "opportuni interventi correttivi". Se questo non dovesse bastare, si passerà alla "valutazione approfondita", servendosi anche di "questionari, focus Group e interviste semi-strutturate". Più semplice la procedura per le imprese che impiegano fino a 5 lavoratori, dove basterà indire delle riunioni tra datore di lavoro e dipendenti.

Cronaca di una giornata

Per comprendere la mia giornata lavorativa di venerdì, è doveroso come prima cosa inquadrare i personaggi. Il capo si chiama Otello, 55 anni, carattere apparentemente gentile e disponibile, ma in realtà e senza troppi misteri egoista e perfido. Poi c'è la moglie, una specie di donnone ben poco femminile, Desdemona, la jena della situazione. Poi c'è Giuditta, la mia collega, molto più giovane di me, la schiavetta perfetta, quella che si è fatta plagiare il cervello e che è di fatto la causa prima dei miei guai. Con Giuditta ho lavorato gomito a gomito 8 anni, l'ho aiutata sempre in tutto, ho sviluppato un rapporto fondato su un grandissimo affetto e complicità, mi sono battuto per lei nel farle riconoscere alcuni benefici economici e l'ho difesa quando se la passava male. Ma lei ha dimenticato tutto in pochissimo tempo.
L'orario di apertura dell'ufficio è fissato alle 8,30 del mattino. Quando avevo io le chiavi , di fatto si apriva alle 8,20, comunque sempre in anticipo: ora invece è un terno al lotto. A volte si apre puntualmente, a volte si superano le nove del mattino. Ma ad aspettare sono sempre solo, perché Giuditta ritiene poco conveniente per la sua reputazione attendere l'apertura col sottoscritto, e così spesso si informa sull'effettivo orario di apertura. Venerdì è andata così, e sono arrivati tutti insieme alle 8,50 circa, facendomi aspettare da solo in auto per una buona mezz'ora. Nessuna scusa, ovviamente.
Entrato in ufficio ho detto "buongiorno", ed ho ricevuto una risposta appena abbozzata, Giuditta in particolare con la potenza di un decibel scarso mi ha sussurrato "ciao", con sguardo disgustato diretto ben fuori dalla portata dei miei occhi. Così mi sono diretto alla mia scrivania, che si trova nella parte più emarginata e lontana dal contesto in cui anche la clientela viene accolta. Mi sono messo quindi a svolgere il mio lavoro. Oggi consisteva nel mettere in ordine alfabetico alcune migliaia di fogli sottilissimi, ognuno dei quali riferito ad un cliente. Così, mentre io svolgevo questo "lavoro" senza poter proferire parola con nessuno, sentivo da lontano le due colleghe che svolgevano il normale lavoro, quello che io ho svolto brillantemente per 13 anni, affrontando e risolvendo tutti i problemi dei clienti. Ho cominciato a lavorare, e dopo quella che mi è sembrata un'ora ho guardato l'orologio: erano passati appena venti minuti! Già, perché il tempo non passa, quando si svolge un compito così assurdo tutto sembra fermarsi, hai solo modo di chiederti perché ti stia succedendo tutto questo, quale colpa tu abbia, pensi a come sarebbe straordinario se tutto potesse rivelarsi solo un brutto sogno... ma ti guardi attorno e capisci che è tutto vero, che sta accadendo a te e che non sai se finirà mai. L'unico modo che mi fa resistere è ricevere qualche messaggio sul cellulare da parte di mia moglie, che mi incoraggia a resistere, che mi dice che ride bene chi ride ultimo, che mi dice che sono la persona migliore del mondo. Mi serve moltissimo, perché sapere che quella non è la realtà mi fa sentire vivo, sapere che al di fuori di quelle quattro mura sono una persona stimata e rispettata e soprattutto amata mi sembra addirittura sorprendente, perché purtroppo il demansionamento comporta anche questo, una perdita costante e continua dell'autostima. Di tanto in tanto sento le due colleghe ridere e scherzare, evidentemente c'è un buon feeling, e la loro allegria non è minimamente compromessa dalla consapevolezza che in ufficio c'è una persona che vive male, che si sta ammalando, che vive una quotidiana ingiustizia, che soprattutto vive tutto questo senza che abbia mai fatto nulla di male a nessuno. C'è da dire che fino a tre mesi fa Giuditta non sopportava affatto Desdemona, il termine "jena" gliel'aveva affibbiato lei, ed era solita criticarla per l'abbigliamento e per certe parti anatomiche non proprio gradevoli...Così, lentamente, sono arrivato anche Venerdì alle fatidiche 13.00, e con un "arrivederci", mi sono congedato. Il pomeriggio è stato la fotocopia della mattina. Ho avuto modo di parlare soltanto con un cliente, perché questi aveva chiesto espressamente di me, e ciò che dovrebbe essere la normalità mi è sembrato un fatto davvero insolito: parlare ed essere utile a qualcuno nell'esercizio del mio lavoro. Alle 19 precise me ne sono andato: anche perché se mi trattengo qualche minuto in più vengo gentilmente invitato ad andarmene... il fatto che non sia gradito in quell'ufficio mi viene sottolineato in ogni modo possibile, e per loro, evidentemente, ne devo essere sempre consapevole.

venerdì 21 gennaio 2011

No al mobbing!!

Cos'è il mobbing?

E' un termine di origine anglosassone: "to mob" significa assalire, vessare, malmenare. Nel linguaggio comune, con il termine “mobbing” generalmente si indica una forma di vessazione, di aggressione e di danneggiamento perpetrata nei confronti di uno o più lavoratori.

Più precisamente, la Cassazione ha recentemente stabilito che per mobbing si intende comunemente un comportamento del datore di lavoro (o del superiore gerarchico, del lavoratore a pari livello gerarchico o addirittura subordinato), il quale, con una condotta sistematica e protratta nel tempo e che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, pone in essere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro. Da ciò può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (Corte di Cass., Sentenza n. 3875/09).

Tali condotte illecite sono finalizzate, se non direttamente o indirettamente a far lasciare il posto di lavoro alla “vittima”, senz'altro a danneggiarne salute, tranquillità reputazione e professionalità.

Chi scrive ha una storia lavorativa che nasce nel 1996. Prima semplice collaboratore, poi impiegato, infine capoufficio in una piccola azienda.Una carriera sempre in lenta ma costante ascesa, condita da tante piccole soddisfazioni, dalla stima dei colleghi e dei superiori. Un'attività in cui ho curato al massimo la preparazione tecnica, in cui mi sono sempre dimostrato disponibile ad aiutare tutta la rete di vendita, in cui mi sono distinto creando degli strumenti di lavoro che ho messo a disposizione di tutti, anche di altri partner commerciali, facendo risuonare il mio nome a livello nazionale.
Ad un certo punto però cambia tutto. Senza alcun preavviso il mio trattamento economico legato alla produzione di nuovi contratti viene annullato, progressivamente mi vengono inbite alcune funzioni sul mio computer, infine il mio posto di lavoro viene spostato ed allontanato dalla clientela. Mi vengono tolte le chiavi dell'ufficio, mi viene di fatto imposto di non usare il telefono, vengo escluso da un programma di aggiornamento professionale, non posso più adoperare il programma di contabilità. Il tutto avviene senza alcuna giustificazione dall'alto, le mie mail in cui chiedo spiegazioni non vengono neanche lette e mi ritrovo a lavorare esclusivamente nell'archivio dei contratti annullati, un ruolo alientante e mortificante per un lavoratore con le mie capacità ed esperienza. Vengo poi emarginato rispetto agli altri colleghi, che fino a poco tempo fa mi vedevano come il punto di riferimento, il guru sempre pronto a dispensare aiuto e consigli, mentre oggi incredibilmente mi evitano, neanche mi degnano di un banale "come stai?". Sono ormai alcuni mesi che va avanti così.

Da una parte questo blog vuole essere un po' un diario di questa assurda situazione, ma non solo. Il mobbing è un fenomeno purtroppo largamente diffuso, e probabilmente non se ne percepisce la dimensione fino a quando non ci tocca personalmente. Io penso che da un male, se possibile, è necessario poter trarre un bene e, nello sforzo quotidiano di resistere a questa situazione, può essere utile condensare in un blog come questo tutte le informazioni più utili, a vantaggio di tutti coloro che si trovano in questa triste condizione.